La Linea D'Ombra: esoterismo, paranormale e misteri

Inni ad Artemide

« Older   Newer »
  Share  
Morgwen )o(
Posted on 5/5/2015, 00:51     https://i.imgur.com/f9CQYv1.png   https://i.imgur.com/soPZJY8.png




Greek_Goddess__Artemis_by_Mellbell14


"Artemide cantiamo (per chi canta

non è lieve ignorarla), che ama gli archi

e la caccia alla lepre e il vasto coro

e scherzare sui monti, cominciando

da quando, ancora piccola bambina,

in questo modo si rivolse al padre,

stando seduta sulle sue ginocchia:

Concedimi, papà, di rimanere

vergine sempre e avere molti nomi,

perché Febo con me non venga a gara.

Concedimi archi e frecce; suvvia, padre,

non ti chiedo di darmi una faretra

né un grande arco. Per me i Ciclòpi sùbito

fabbricheranno frecce, per me un arco

dalla forma ricurva. Ma ti chiedo

di portare la luce e di indossare

una tunica corta sul ginocchio

col bordo all'orlo, per andare a caccia

di animali selvatici. Concedimi

sessanta danzatrici oceanine

tutte di nove anni, tutte ancora

bambine che non portano cintura.

Al mio servizio dammi venti ninfe

del fiume Amnìso, che dei miei calzari

e dei cani veloci abbiano cura,

come si deve, quando non colpisco

linci né cervi. Dammi tutti i monti,

ma una città riservami qualunque,

quella che vuoi: discende raramente

Artemide in città. La mia dimora

sarà sui monti e le città degli uomini

frequenterò soltanto, quando, morse

dagli acuti dolori del travaglio,

in aiuto mi chiamino le donne.

Dalle Moire ebbi in sorte, appena nata,

di assisterle, poiché nel partorire

e nel portarmi non soffrì mia madre,

ma, senza alcun dolore, mi depose

dalle sue membra. Dette queste cose,

attaccarsi voleva la bambina

alla barba del padre e molte volte

tese invano le mani per sfiorarla.

Ridendo assentì il padre e le rispose,

carezzandola: Se mi partorissero

le dèe creature simili, pochissimo

avrei pensiero di Era, che si adira

per gelosia. Le cose che mi chiedi

e di cui ti accontenti, eccoti, figlia.

Altre cose più grandi darà il padre:

trenta città, non una sola torre,

trenta città ti donerò per giunta

che nessun altro dio celebreranno,

ma solo te, dicendosi di Artemide;

molte città sul continente ed isole

con altri da dividere, ed in tutte

altari vi saranno per Artemide

e boschi sacri, e tu sarai custode

delle strade e dei porti. Così detto

confermò con il capo le parole.

E la fanciulla andò sul monte Bianco,

nell'isola di Creta, su cui crescono

chiome di boschi, e andò di lì all'Oceano.

E numerose ninfe per sé scelse

tutte di nove anni, tutte ancora

bambine che non portano cintura

ed il fiume Cerato era ben lieto

e lieta Tethi, che le loro figlie

mandavano alla figlia di Letò

come compagne. Quindi alla ricerca

si recò dei Ciclòpi. Li raggiunse

nell'isola di Lipari (oggi Lipari

ma allora si chiamava Meligunide)

che stavano alle incudini di Efesto

intorno ad una massa incandescente.

Un gran lavoro urgeva; fabbricavano

un abbeveratoio per i cavalli

a Poseidone. Furono atterrite

le ninfe nel vedere i mostri orrendi,

che parevano i vertici dell'Ossa

(a tutti la pupilla di un sol occhio,

grande come uno scudo ricavato

da quattro cuoi di bue, lanciava sguardi

terrificanti sotto il sopracciglio),

e quando il suono cupo dell'incudine

udirono echeggiare fortemente

e il gran vento dai mantici soffiato

e il pesante ansimare dei Ciclòpi.

Ne risonava l'Etna, la Trinacria

ne risonava, sede dei Sicani,

ne risonava la vicina Italia

e un gran rimbombo rimandava Cirno,

quando i martelli alzando sulle spalle

e battendo con ritmo ininterrotto,

dalla fornace, il rame che bolliva

o il ferro, con gran forza sospiravano.

Perciò mancò il coraggio alle Oceanine

di vederli di fronte e di ascoltare

il cupo suono, senza aver timore.

Non c'è da vergognarsi: anche le figlie

non più tanto piccine dei beati

non li vedono senza raccapriccio.

Ma quando una bambina con la mamma

si mostra poco docile, la madre

va a chiamare i Ciclòpi per la figlia,

Arge e Sterope. E allora viene avanti

dal fondo della casa Ermes spalmato

col nero della cenere. All'istante

si nasconde impaurita la bambina

nel seno della mamma, con le mani

davanti agli occhi. Tu, bambina, invece

anche la prima volta, benché avessi

solo tre anni, quando con te in braccio

giunse Letò (per presentarle i doni

Efesto l'invitava), poiché Bronte

sopra le sue ginocchia vigorose

a sedere ti mise, gli afferrasti

sul vasto petto un gran ciuffo di peli

e tirasti con forza. E ancora adesso,

proprio al centro del petto, gli rimane

senza peli una zona, come quando

s'insedia sulla testa l'alopecia

e devasta la chioma di qualcuno.

Allora, senza l'ombra di paura,

in questo modo ad essi si rivolse:

Ciclòpi, fabbricate anche per me,

suvvia, qualche arco dei Cidonii e i dardi

ed un concavo astuccio per le frecce.

Io pure sono figlia di Letò

come lo è Apollo. Se con l'arco a caccia

catturerò una belva solitaria

o un animale di grandezza immane,

i Ciclòpi l'avranno come pasto.

Dicesti, essi eseguirono, ti armasti

rapidamente, dea. Subito dopo

andavi alla ricerca della muta.

Ti recasti in Arcadia, nella grotta

dove dimora Pan. Carne di lince,

proveniente dal Ménalo, tagliava,

perché le cagne di recente parto

potessero nutrirsi. A te il barbuto

dette due cani bianchi per metà,

tre rossicci, uno a macchie, che al covile

i leoni perfino, ancora vivi,

all'indietro riversi, sanno trarre,

con le zanne piantate dentro il collo.

Sette cagne ti dette Cinosuridi,

più veloci del vento, rapidissime

i cerbiatti a rincorrere e la lepre

che non chiude mai gli occhi e a segnalare

dove ha il giaciglio il cervo e i covi l'istrice

e a guidare sulle orme del capriolo.

Di là partita (e i cani ti seguivano),

trovasti delle cerve che saltavano

sui valichi montani del Parrasio.

Qualcosa di grandioso: pascolavano

più maestose di tori, sempre a riva

del fiume Anauro dalla ghiaia nera

e riluceva l'oro delle corna.

Lo stupore ti colse all'improvviso

e dicesti tra te: Degna di Artemide

sarebbe questa come prima caccia.

Erano cinque in tutto: quattro in corsa

ne catturasti svelta senza i cani,

perché il veloce carro ti portassero.

La sola che oltre il fiume Celadonte,

su consiglio di Era, fuggì via

- per divenire poi una prova di Eracle-

la ricevette il colle di Cerinio.

Artemide Partenia, che di Titio

facesti strage, hai d'oro arco e cintura

ed attaccasti al giogo un carro d'oro

e freni d'oro, dea, desti alle cerve.

E dove ti portò la prima volta

il carro di animali con le corna?

Sull'Emo trace, da cui giunge il soffio

tempestoso di Borea e porta un gelo

esiziale per chi non ha il mantello.

E la fiaccola dove la tagliasti

e a quale fiamma l'accendesti? Un alito

di fuoco producesti inestinguibile,

che sprigionano i fulmini del padre

sull'Olimpo di Misia. E quante volte

sperimentasti, dea, l'arco d'argento?

La prima volta a un olmo, la seconda

a una quercia mirasti, ad una belva

la terza volta, non contro una quercia

mandasti il tiro per la quarta volta,

ma contro una città d'uomini ingiusti,

con un comportamento molto empio

verso se stessi e verso gli stranieri,

infelici, cui lasci impresso il segno

d'un'ira rovinosa. Dalla peste

le loro bestie sono divorate,

dal gelo i seminati, per i figli

i vecchi si recidono la chioma,

le donne, fatte segno dei tuoi colpi

o muoiono di parto, o, se si salvano,

partoriscono figli che non stanno

ritti sulle caviglie. Ma a coloro

a cui ti volgi mite e sorridente,

porta il campo la spiga, bene cresce

la razza dei quadrupedi e la casa;

vanno al sepolcro, solo per portare

qualcuno molto vecchio, la discordia,

che rovina le case ben piantate,

non danneggia la razza e le cognate

stanno sedute ad una stessa mensa.

Chi mi è amico sincero faccia parte

di costoro, o divina, e possa anch'io

esser tale, signora, e avere a cuore

il canto sempre: in esso vi saranno

le nozze di Letò, vi sarai tu,

con gran rilievo e Apollo e le tue imprese,

nessuna esclusa, e i cani e gli archi e il carro

che senza sforzo, splendida, ti porta

quando a casa di Zeus tu lo dirigi.

Lì nel vestibolo Ermes Acachesio

ti viene incontro a prendere le armi

ed Apollo la preda che tu porti,

qualunque sia - così accadeva un tempo

quando non era giunto il forte Alcide -.

Ora non ha più Febo questo cómpito

in tal modo sta sempre sulla porta

l'incudine tirintia, nell' attesa

che tu giunga, portando da mangiare

qualche ricco boccone. Alle sue spalle

a non finire tutti gli dèi ridono

e la suocera più di tutti gli altri,

quando un toro grandissimo o un cinghiale

che si dibatte, carico di forza,

per le zampe di dietro trae dal carro.

E con questo discorso interessato

ti dà istruzioni, dea: Colpisci bestie

che fanno danni, in modo che i mortali

ti invochino in aiuto, come me;

lascia cerbiatti e lepri a pascolare

sulle montagne. Cosa fanno mai

cerbiatti e lepri? Guastano i cinghiali

i seminati, gli alberi i cinghiali

ed anche i buoi sono un malanno grave

per gli uomini: colpisci pure questi.

Così dicendo intorno alla gran bestia

si dà da fare con sveltezza; infatti,

quando il suo corpo fu divinizzato

sotto la quercia frigia, egli non smise

di essere vorace; ha sempre il ventre

per cui una volta contro Teiodamante,

che stava arando, suscitò una lite.

Le ninfe dell'Amnìso per te strigliano

le cerve liberate dalle cinghie

e danno loro in pasto in abbondanza

il trifoglio di crescita veloce

che hanno raccolto dal giardino di Era

- i cavalli di Zeus pure ne mangiano -,

colmano d'acqua i recipienti d'oro

perché abbiano le cerve acqua gradevole.

Alla casa del padre ti dirigi:

t'invitano egualmente al loro seggio

tutti gli dèi: tu siedi presso Apollo.

Quando le ninfe in coro ti circondano

presso le fonti dell'egizio Inopo

o a Pitane (Pitane pure è tua)

o a Limne o dove, dea, per dimorarvi

venisti dalla Scizia, Ale Arafenide,

e le usanze dei Tauri rifiutasti,

non arino in quel tempo le mie vacche,

date in affitto, un campo che misura

quattro piene giornate di fatica,

sotto un altrui aratore: al letamaio

farebbero ritorno zoppicanti

col collo affaticato, anche se fossero

bestie di nove anni, di Stinfèa,

dalle corna capaci di trainare,

superiori ad ogni altra per aprire

profondi solchi. Infatti, quel bel coro

non supera il dio Elios, ma lo ammira,

fermando il carro, e il giorno si fa lungo.

Che isola, che monte, quale porto

ti fu più caro, che città, che ninfa

amavi più delle altre? E che eroine

avesti accanto? Dillo a noi, tu, dea,

ed io lo canterò per l'altra gente.

Ti fu gradita Dòliche fra le isole,

Perge fra le città, caro fra i monti

ti fu il Taigeto e i porti dell'Euripo.

La ninfa di Gortina, Britomarti

amavi più delle altre, cacciatrice

di buona mira, per la quale un tempo

Minosse, follemente innamorato,

per i monti di Creta scese in corsa.

Ora andava a nascondersi la ninfa

sotto le querce ricche di fogliame,

ora nei prati. Andò per nove mesi

egli girando tra costoni e rupi

e non sospese mai l'inseguimento,

finché, quasi raggiunta, ella nel mare

balzò da un alto scoglio e nelle reti

dei pescatori andò a cadere in salvo.

I Cidonii da allora danno il nome

di Dittinna alla ninfa e di Dittèo

al monte da cui giù balzò la ninfa.

Posero altari e fanno sacrifici

e corone di pino e di lentisco

in quel giorno vi sono e non si tocca

il mirto con le mani; allora infatti

un rametto di mirto nella fuga

s'impigliò tra le vesti alla fanciulla,

e perciò molto si adirò col mirto.

Upi signora di splendente aspetto,

portatrice di luce, danno il nome

da quella ninfa pure a te i Cretesi.

E Cirene prendesti per compagna

e due cani da caccia le donasti

con cui la figlia di Ipseo nella gara

alla tomba di Iolco vinse il premio.

E di Cefalo, figlio di Deione,

la bionda sposa per compagna accanto

volesti a caccia e amasti, a quanto dicono,

l'attraente Anticlea, come la luce

degli occhi tuoi. Per prime esse portarono

veloci frecce e in spalla la faretra,

piena di dardi e avevano scoperta

la spalla destra e sempre nudo il seno.

Anche Atalanta dai veloci piedi,

figlia di Iasio, della stirpe d'Arcade

che sterminò il cinghiale, avesti cara

e le insegnasti l'arte della caccia

con la muta dei cani e il tirar d'arco.

E coloro che furono invitati

a caccia del cinghiale calidonio

non hanno alcuna critica da farle:

portò in Arcadia insegne vittoriose

ed ha tuttora i denti della fiera.

Non credo che nell'Ade, pure odiandola,

parlino male dell'arciera Ilèo,

né il dissennato Reco. Non potrebbero

sostenere con loro la menzogna

i loro fianchi, da cui in vetta al Mènalo

scorreva sangue. Dea dai molti templi,

dalle molte città, Chitonèa, salve,

te che Mileto ben conosce e Nèleo

fece sua guida, quando con le navi

tornava da Cecropia. Dea del Chesio,

dea dell'Imbraso, tu che hai il primo trono,

nel tempio tuo il timone della nave

Agamennone offrì per propiziarsi

un buon viaggio per mare, poiché i venti

tu trattenesti, quando navigarono,

irate a causa d'Elena Ramnuside,

le navi achee, portando la rovina

alla città dei Teucri. E per te eresse

due templi Preto, l'uno come Coria,

poiché riconducesti le sue figlie

che erravano sui monti dell'Azenide,

e l'altro in Lusi come Domatrice,

poiché dalle fanciulle eliminasti

la tendenza ferma. A te innalzarono

le Amazzoni, fautrici della guerra,

sulla marina d'Efeso una statua

sotto un tronco, una quercia, e Ippò per te

celebrò il rito, ed esse, Upi signora,

tutt'intorno danzarono la prulis,

prima armate al completo con gli scudi,

poi in giro, disponendosi in un cerchio

di vaste proporzioni, e le siringhe

facevano da sfondo, melodiose

lievemente, perché, secondo il ritmo,

battessero la terra (non ancora

dannosa al cervo, l'opera di Atena

forato aveva l'osso di cerbiatto).

Da Sardi l'eco corse al territorio

dei Berecinzi. Senza interruzione

facevano gran strepito coi piedi

e mandavano suono le faretre.

Intorno a quella statua fu poi eretto

un vasto santuario, di cui nulla

più divino e fastoso vedrà Eos:

senza fatica vincerebbe Pito

Si vantò di distruggerlo da folle

il prepotente Ligdami e condusse

un esercito fitto come sabbia

di Cimmerî che mungono cavalle

ed hanno la dimora sullo stretto

della giovenca Inachia. Ah, vile re,

che gran peccato! Non doveva mai

tornarsene di nuovo nella Scizia

e come lui chiunque aveva i carri

nei prati del Caìstro. Avanti ad Efeso

c'è sempre la barriera dei tuoi dardi.

O dea Munichia, che proteggi i porti,

salve Ferèa. Nessuno oltraggi Artemide

(non per Enèo, che trascurò l'altare

vennero belle prove alla città)

né si competa nella caccia al cervo

o nel tirare d'arco (non fu il vanto

pagato dall'Atride a basso prezzo)

né si aspiri alla vergine (non 0to

né Orione fauste nozze ricercarono)

né la danza annuale si respinga

(non senza pianto di danzare in cerchio

Ippò si rifiutò presso l'altare).

Salve, sovrana, molte volte salve,

a te giunga gradito questo canto."


Callimaco
 
Top
0 replies since 5/5/2015, 00:51   89 views
  Share